Così diventai una puttanella (1)

Così diventai una puttanella (1)
“Hai le tette e ti piace pure il cazzo”.
Sintetico, brutale, efficace: non si poteva obiettare nulla, in una decina di parole Fabrizio aveva fotografato la mia vita, drammi, dubbi e atroci sofferenze interiori di un corpo diviso a metà e di una mente che pensava assolutamente come quella di una ragazza; era un’analisi superficiale, la sua, aveva banalizzato ma ci aveva preso, non mentiva, ero io che mentivo, a me stesso o a me stessa, non sapevo mai come parlare di me, dentro di me.
Era di notte, notte buia di luna nuova e di scirocco, dividevamo quella tendina canadese nel campeggio in collina in cui ero ospite dei suoi, che dormivano comodi in roulotte con gli altri due figli, mentre noi stavamo in uno spazio angusto, spartano, che non dava troppo spazio ai movimenti né alle fantasie, condividevamo su quel materassino matrimoniale meno di due metri quadrati di adolescenze inquiete, ormoni in esubero, liberi sfoghi ed emozioni represse, lui che si ficcava completamente nudo nel sacco a pelo e teneva la lampo chiusa soltanto sotto la cintola, evocando certi colpi bassi, proibiti, perché lasciava intravedere tra il pube e l’ombelico una peluria rossiccia, nell’incerto chiarore delle luci notturne e nella foschia che calava ancora di più sui miei occhi miopi, quando mi toglievo gli occhiali, creando una semioscurità complice e maliziosa. Io invece mi barricavo dentro il mio sacco a pelo indossando il mio bravo pigiamino, composto da shorts e canottierina sexy e piuttosto femminili, un tantino provocatori, e tiravo su la cerniera per chiudermi ermeticamente, come per blindare desideri che cercavo di tenere fuori da me ma che, lontano da quella tenda, non sempre avevo saputo dominare.
Era un chiodo fisso, il ricordo di quei momenti in cui avevo perso il controllo, un rovello che mi girava dentro la testa e mi impediva di dormire, ancora di più in quella notte di caldo umido, in cui Fabrizio si era addormentato beato, col suo solito respiro pesante e regolare, muovendosi nel sonno quel tanto che bastava per mostrare qualcosa in più della peluria pubica, e questo mi inquietava ancora di più, riempiendomi la testa del ricordo di quanto mi ero sentita puttana, qualche mese prima, col mio grande amore.
Fuggivo da quei ricordi, ero lì per quel motivo: l’estate dei miei 15 anni si era trasformata in una sorta di espiazione, ma non riuscivo a togliermi dalla testa quella potentissima cotta che mi aveva reso impossibile ogni forma di resistenza. Stando in vacanza con Fabrizio cercavo di distrarmi, lui mi aveva accolto con entusiasmo, aveva due fratelli più piccoli, uno di pochi anni, e un coetaneo con cui giocare e parlare non gli dispiaceva, anche perché lo attraeva la mia caratteristica fisica più evidente, la stessa che colpiva soprattutto i maschi, adolescenti come me ma pure più grandi e persino adulti, il mio acerbo seno, naturale come la mia effeminatezza; turbava, certo incuriosiva, ma lui era stato discreto, in pubblico non aveva mostrato interesse ma una sera, mentre eravamo da soli in tenda, con timidezza, in modo quasi educato – certo non brutale come di solito mi capitava – aveva poggiato in maniera lieve ma decisa una mano sulla mia canottiera-pigiama, palpeggiandomi con delicatezza all’altezza del petto gonfio e morbido, aveva sorriso e lo avevo lasciato fare, “che muscoli”, mi aveva canzonato, ma con le dita e con una malizia più che spinta mi aveva sollecitato i capezzoli, che si erano indecorosamente induriti sotto la stoffa, al contatto con la sua carne ansiosa.
Non era successo niente, quella volta, ma adesso, in quella notte di caldo, era difficile rintanarsi nel sacco a pelo, come di solito facevo, dovetti allargare l’oblò lasciando fuori testa, spalle e braccia e fu così che sentii un odore strano, intenso, acre e al tempo stesso dolciastro; spinsi lo sguardo verso il basso e vidi qualcosa che probabilmente era la fonte di quel profumo, non seppi resistere e inforcai gli occhiali e vidi il suo membro gonfio, svegliato da un’erezione spontanea, notturna, e poggiato sul ventre, a lambire quasi l’ombelico, per quanto era lungo e grosso.
Ebbi paura che si svegliasse e mi sorprendesse, ma vidi che il suo petto muscoloso misurava respiri regolari, ritmati dalla bocca aperta, mi presi di coraggio e mi tirai un altro po’ su, vidi che lo aveva innervato e sodo, mezzo scappucciato e in quel modo odorava ancora di più di uomo e fu come una scossa, ricordai, rividi, risentii, persino riassaporai quel che era avvenuto col mio grande amore, provai sensazioni che credevo dimenticate, mi sentii tirare sotto l’inguine e istintivamente mi sollevai più su ancora e mi sporsi fuori dal sacco a pelo, poggiandomi sui gomiti per guardare meglio.
“Hai le tette e ti piace pure il cazzo”.
Ora non erano più ricordi. Era lui.
Mi sentii morire. Ma in realtà stavo per rinascere.

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